Vorrei dare ufficiale apertura al mio blog richiamando all’attenzione un pensiero, una riflessione che ricorre spesso alla mia mente, perché molto vicina al mio sentire attuale, ma soprattutto perché di grande rilevanza, a mio avviso, nello scenario contemporaneo.
E la mia riflessione vuole partire da un ricordo, un ricordo appartenente ad un tempo puro, luminoso e profumato, di quella luce bianca e abbagliante, di quel profumo dolce come di vaniglia e fresco come di primavera, di quel tempo insomma che è esperienza e ricordo impresso ed indelebile di tutti : il tempo della scuola.
Tempo dell’ascolto e del silenzio forzato, della noia alla costrizione, alla fatica e del sentimento di ribellione, dell’emozione del trasgredire e della paura al richiamo del professore, di queste figure ai nostri occhi imponenti, eppure muri da abbattere, scavalcare e superare, degli sguardi complici tra compagni, dell’amicizia vera, del gioco ingenuo che veste ogni gesto di naturalezza.
Il tempo dell’infanzia, dell’adolescenza che non muore mai, per quanto l’età ci appesantisca e ci gravi di responsabilità, perché mai morrà in noi l’incertezza del vivere, la paura dell’agire e quella sana percentuale d’incoscienza che ci salva.
E di questo tempo, che fu per me anche tempo di nutrimento e gestazione, voglio riportare un mio ricordo vivo come un segno.
Un giorno in particolare, una lezione in cui il mio professore di storia e filosofia portò in classe nostra il suo professore di storia e filosofia.
La cosa mi colpì molto perché rendeva tangibile il senso di “staffetta”, ovvero della vita, del suo susseguirsi, del nostro susseguirci, tramandare noi stessi e lasciare il posto ad altri.
Nonché il senso della memoria.
Quell’uomo piccolo e vestito quasi monocromo, nella cui mano tremava un po’ il suo bastone- di quel tremolio normale dell’età lunga-e pur sempre composto nel suo fare riservato, quasi nascosto, pareva più che altro timido ed incerto, nei suoi passi pareva più voler indietreggiare che farsi avanti.
Poi invece parlò e ci disse parole indelebili:“ L’insegnante è il mestiere più nobile, uno tra i più nobili. Il suo compito è segnare, lasciare un segno. I ragazzi quando giungono sono spaesati e sconoscono sé stessi, l’insegnante deve essere capace di condurre fuori da un gruppo di informi personalità degli individui, personalità individuali. Dovrà quindi scoprire la vocazione di ognuno, suggerire la strada e modellare, levigare il carattere, le spigolature di ognuno. In questo l’insegnante ha più responsabilità, più potere della famiglia, legata da affetti e dunque potenzialmente incapace di criticare. Criticare vuol dire portare i ragazzi a conoscere sé stessi, perché ognuno di noi crede di conoscersi, quasi nessuno però è davvero cosciente di chi sia, ma criticare è anche una preparazione alla vita, perché in sé all’uomo risulta difficile la critica e spesso si vuole, si desidera che ogni cosa avvenga secondo il proprio piacere, che tutto si pieghi al proprio desiderio. Per questo il mestiere dell’insegnante è anche il più oneroso. Ma la formazione sta alla base del futuro.”
Quell’uomo mi raccontò di cose che nessuno mai mi aveva detto, almeno non in quel mondo, con quelle parole di una convinzione viva.
Quell’uomo ricordò quello che tutti oggi dimentichiamo, o siamo indotti a dimenticare.
Perché nessuno più ricorda che educare, dal verbo latino EDUCARE (EX-DUCERE), vuol dire “condurre fuori” e formare “dar forma”?
Perché nessuno ricorda più che l’alunno dal latino AL-UMUS-A è “terra da coltivare”, il passero da imboccare, nutrire?
Oppure lo si ricorda come pura nozione, un sapere per eruditi.
Oggi del resto gran parte delle cose si ricordano come pura nozione, lo stesso insegnamento , apprendimento diventa sempre più un tentativo di ricordare a memoria eventi, date, formule, pensieri, frasi, nomi, poesie con il solo scopo di ricordare, come dice Franklin “secondo il metodo dell’allevamento dei polli: li ingozzi perché assorbano cibo con il naturale esito che evacuino nell’oblio”.
Perché a nessuno più interessa l’insegnamento e lo studio come amore, come avidità di ricerca, insomma come respiro di cultura intesa, secondo la definizione di Massimo Salvadori, come “la capacità di porsi dei limiti”, e dunque come formazione della persona?
Perché nessuno più parla del valore dell’insegnamento, del ruolo fondante che la scuola riveste all’interno della società con lo stessa convinzione viva delle parole di quell’uomo?
Perché nessuno a gran voce lo urla oggi, in questo tempo in cui la scuola viene sempre più impoverita ed il suo ruolo sempre più sminuito?
Se, come diceva quel saggio professore, “La formazione sta alla base del futuro”, che futuro noi giovani dobbiamo aspettarci da una società che non investe e neanche crede più nella cultura, come fondamento dell’individuo ?
Chi mai ci preserverà dal diventare marionette e fantocci ben indottrinati ma incapaci di pensare?
Che individui saranno i nostri figli? noi stessi cosa diventeremo?
Vige ancora per fortuna un po’ di spirito critico, ne rimane la speranza.
Questo mio articolo d’apertura infatti vuole essere ancora un articolo di speranza, speranza che per me risiede nel pensiero, nella parola, nella comunicazione.
Speranza che risiede tuttavia anche in molte branche attive e brulicanti nella scuola e tra i giovani.
Ed è per questo che rivolgo il mio grazie a tutti quei professori d’Italia che, come molti di quelli che ho avuto, credono ancora nell’insegnamento e nel suo valore, nella formazione, nella cultura e nello spirito critico, valori sui quali fondano il proprio mestiere.
Li imploro: continuate, non lasciatevi scoraggiare, dateci la speranza in un futuro, la possibilità ancora di sognarne uno.
Ricordateci ancora di sognare.
Ma voglio ringraziare anche tutti i giovani che non smettono di sognare in un futuro migliore e lottare costantemente per la possibilità di metterlo in atto.
A voi tutti queste note:
Le tue considerazioni, profonde e attente come sempre, meritano molto più di un commento. Il senso di quello che facciamo da insegnanti sta tutto nelle parole di quell’anziano professore di filosofia e consiste nel “credo” di ciascuno di noi. Sbagliando, cercando nuove rotte, ognuno seguendo le proprie inclinazioni, sensibilità, temperamenti, intelligenze ed educazioni perseguiamo quell’obiettivo. Con risultati differenti. Resta il fatto che chi svolge questo mestiere credendoci, lo fa investendo tutto di sè, senza riserve, nella piena consapevolezza di quanto sia arduo e affascinante il compito assegnatogli.
Mi sembrano pienamente centrati i due lati della stessa medaglia che rappresenta il cuore del problema dell’insegnamento: “in questo l’insegnante ha più responsabilità, più potere della famiglia, legata da affetti e dunque potenzialmente incapace di criticare”. Se rifletti attentamente, con parole diverse, esprime in sostanza un mio pensiero che ti ho espresso un pò di tempo fa. La capacità di un insegnante di prendere le distanze dal coinvolgimento emotivo/affettivo nei confronti dello studente che ha davanti proprio per evitare di cadere in quelle trappole inevitabili che già sussistono nei legami familiari e quindi aiutarlo ad inoltrarsi verso il difficile e oneroso percorso del pensiero critico.
Il nozionismo…Lasciando perdere certi eccessi anacronistici e inutili di un certo tipo di insegnamento, rivaluterei l’importanza fondamentale dell’uso della memoria che va esercitata, richiedendo fatica e costanza, e i cui frutti preziosi si vanno raccogliendo man mano negli anni che passano, quando esperienza e maturità riempiono di nuovi significati ciò che si è “memorizzato” da giovani, troppo giovani per comprenderne il senso. Il sentimento di invidia che ho provato dinanzi alla capacità di mio padre di ricordare perfettamente a memoria i versi dei capolavori alla base della sua formazione classica ( e so quanta fatica gli è costato tutto questo in gioventù…), amandoli e sentendoli propri ogni volta di più, è andato di pari passo col rimpianto verso tutte le volte in cui nessuno ha costretto me, povera di memoria, a farlo.
Non sono un docente e non sono mai stato, né mi sono mai sentito, chiamato ad un compito così alto qual é quello dell’insegnante (sono un “cinico” avvocato”). Eppure, queste poche righe che precedono, apparentemente (ripeto: apparentemente) poco significative fanno emergere delle riflessioni; che non sono quelle dell’avvocato, né quelle dello studente universitario, ma dell’uomo che si pone il problema di dare un significato alle cose (quella che segue potrà sembrare una lezione, fors’anche univesitaria nel migliore dei casi, ma vuole essere una riflessione, anche se per i più noiosa). Anche di dare significato al proprio essere docente (o avvocato).
Il dare significato non è l’esito di un unico modello di ragionamento; al dare significato si può giungere, infatti, per due diversi percorsi mentali, corrispondenti a due diversi modelli di conoscenza:
1) IL SIGNIFICATO PUO’ ESSERE COLTO, DERIVANDOLO DALLA STRUTTURA DEL FATTO: E’ CONCEPITO COME ”MESSAGGIO”, LOGOS, RICAVABILE DAL FATTO: il fatto non è mai anonimo, ma appare latore, nella sua struttura, di un significato che, come tale, oggettivamente lo identifica. Secondo tale modello, allora, l’uccisione di un uomo contiene un significato proprio, che certamente non ne esclude altri, ma che, rispetto a questi ultimi, risulta primario e fondamentale, perchè deriva dalla costituzione interna del fatto. Il messaggio in esso contenuto è che la soppressione della vita di un uomo è, oggettivamente, la negazione del livello della coesistenza. L’evento ”uccisione”, infatti, ”fenomenologicamente”, mette in mostra alcuni elementi che sono espressione del significato obiettivo dell’uccidere: l’uomo, la vita, l’essere nel mondo insieme agli altri. La privazione della vita è fondamentalmente in sè, un fatto, esistenzialmente negativo!
2) IL SIGNIFICATO E’ COLTO COME UNA QUALITA’ ARTIFICIALE, FABBRICATA INTELLETTUALMENTE DALL’UOMO, SENZA ALCUN NESSO CON LA STRUTTURA COSTITUTIVA DEL FATTO. IL SIGNIFICATO E’ SEMPRE UN ”DI PIU’ ”, ATTRIBUITO, DA QUALCUNO, ALLA COSA: dalla semplice descrizione del fatto non è derivabile alcun significato obiettivo. L’assenza di significato coesistenziale non deve destare alcuna ripugnanza e neppure perplessità, poichè appare perfettamente giustificata sul piano teoretico assunto come riferimento. Ad esempio: l’uccisione del tiranno può essere apprezzata come il simbolo della vittoria del bene sul male; la soppressione di una vita umana può essere apprezzata come il simbolo della ”pietà” ( si pensi all’eutanasia” ). Secondo questo modello di ragionamento, dunque, il significato risulta sempre una qualificazione soggettivistica, la cui giustificazione è da ricercarsi nel contenuto di una decisione umana all’interno di un determinato contesto storico-ambientale.
Ed allora, non deriva, gioco-forza, la vanità di ogni discorso in termini di significato di qualcosa’
La ringrazio molto del suo contributo. Questo blog è aperto ad ogni orientamento di pensiero.