La croce come mito

Voglio trattare la storia alla base della festività che ci accingiamo a trascorrere con gioia, la gioia individuale e personale della quale siamo sempre in ricerca, come un mito. Un mito in senso classico, ma in realtà nel senso che tutti i miti investono: delineare contorni che possano diventare coordinate. Trattare l’evento principe della cristianità sotto forma di mito non vuol dire togliere a questo la sacralità che deve assumere per tutti i credenti, ma offrire una posizione laica che allo stesso tempo possa dare un valore all’umanità tutta, senza differenze di religione. Infine, decidere di trattare come mito la storia della condanna a morte di Gesù, non vuole essere un tentativo di affermazione di superiorità della religione cristiana a dispetto delle altre religioni del mondo (è indubbio infatti che per un credente la verità sta nel proprio Dio, ma non per questo deve considerare i credenti di altre religioni uomini inferiori, almeno non è mia intenzione farlo), ma una maniera di raccontare -perché il mito è primariamente racconto-e dunque condividere una storia che mi ha formato e mi forma continuamente sul campo umano prima che morale, che mi racconta della vita da vivere e combattere tutti i giorni, mi riporta al nucleo della vita stessa rendendomi sempre grande commozione.

Mi racconta degli uomini nella vita.

Ripercorrendo infatti questa storia da un punto di vista mitico quel che a me resta è un ritratto di uomini nella vita: del loro modo di reagire alla novità che rompe con la tradizione, al dolore, alla sofferenza; dei moti che stanno dietro ad ogni gesto, moti di cupidigia, desiderio di potere, invidia, odio, paura o semplicemente negligenza, superficialità che inchioda; della naturale propensione dell’uomo ad avere poca fiducia o troppa nella propria ragione e far del male profondo con leggerezza; della capacità umana di salvarsi o condannarsi nella fiducia o nella presunzione; della forza che investe pochi eletti, fatti più di cielo che di carne, la capacità di mantenere la fede oltre la ragione, di essere umili, di amare sempre.

Come ogni mito, anche questo mi investe profondamente, mi coglie impreparata, mi ritrae scene dall’acuto realismo come diversamente non sarebbe possibile, mi dice della mia vita. Oggi mi dice: perché la paura ci investe, ci frena e ci impedisce di avere fede nell’altro di fronte a noi? Perché la ragione deve erroneamente farci credere di essere superiore a ogni cosa quando è visibile la nostra piccolezza, la nostra incapacità a contenere tutto e spiegare tutto, i nostri occhi ciechi? Perché fare vincere la bramosia, il desiderio di potere, l’odio e tutti i moti umani infimi che, sembrano darci ora grandezza, e invece ci rendono subito piccoli, piccolissimi, più piccoli di quanto non siamo?

Tutti i miti hanno raccontato sempre questo rapporto inverso tra grandezza e piccolezza, miti non solo greci ma anche indiani: la capacità del piccolo di vedere il grande e del grande di non vedere il piccolo, questo gioco di ombre.

Forse non era palese fin da allora che l’ingiustizia approvata da chi di giustizia si dovevano occupare un giorno si sarebbe ritorta contro se stessi? Forse non era chiaro a chi condannava un innocente che un giorno sarebbe potuta accadere a se stesso o a un suo figlio? Ma non è mai stato chiaro abbastanza che i valori umani non scritti non hanno più valore del potere di oggi, di quello che abbiamo oggi, che quindi chi agisce ingiustamente per paura di perdere quel che ha, o per altre paure, è più piccolo di colui che subisce l’ingiustizia. Infatti oggi mi dice ancora questa storia: perché non riusciamo mai a comprendere quanto tutto sia inverso a come lo percepiamo, quanto la forza sia nulla perché tanto la perderemo, quanto la grandezza sia falsa perché non può vincere mai il tempo e perché non è umana, ma trasforma l’umano e lo allontana inesorabilmente dal profondo senso che si trova nell’umanità, nello rispecchiarsi nell’altro?

Se si pensa bene, in silenzio e in pace, al percorso della propria vita credo infatti che ognuno di noi ricorderà come eventi d’oro solo gli eventi prettamente umani, dell’incontro con gli altri e del sentire l’altro. In un conteggio della vita ci ritroviamo pieni di cose inutili, le cose essenziali sono veramente pochissime, tutte hanno a che fare col cuore. Perché allora non ci vogliamo mai spogliare? Perché la leggerezza dell’inutile investe il nostro tempo?

Quando tutti urlarono di liberare Barabba al posto di Gesù e Pilato acconsentì all’ingiustizia, sapendo che era tale, e si lavò le mani, tutti fecero la scelta più facile, che richiedeva meno coraggio.

In particolare mi colpisce l’atto di Pilato del lavarsi le mani, ritirarsi da una responsabilità che è sua, mettere un muro di fronte al dolore e al rimorso che poteva coinvolgerlo, lasciarlo agli altri. La croce di Gesù pesava tanto perché aveva su di sé tutto il peso di quelli che l’avevano rigettata e anche Gesù avevo tanta paura di portarla, di non averne la forza, ma sapeva che non poteva rifiutarsi perché contrariamente a tutti gli altri era lui Gesù, era suo il destino e non poteva prescindere da questo.

Se tutti possono fuggire lui non può perché sarebbe fuggire da se stesso. Il peso da portare è il suo, ma anche di tutti quelli che hanno chiuso la porta della loro casa e sono voluti rimanere fuori dalla storia. La risposta è “perché? Perché mi hai abbandonato”.

Purtroppo la croce non fu una, ma sono tantissime in ogni secolo, ma tutte sono uguali.

La storia mi dice oggi infatti: perché ancora chiudi la porta al dolore dell’altro, perché lo abbandoni raddoppiando il peso della sua croce? Perché in questa solitudine mi lasci, cosa temi? Hai paura che io ti possa contagiare il dolore o ti ricordo che anche tu come me non sei niente? Le persone criticano la nostra vicinanza e si allontanano da te? Ma quale vicinanza, compagnia e affetto ricevi da costoro che ti lasceranno non appena tu sarai più debole? Dici di non avere la forza di sostenere insieme a me la mia croce, ma io, che non posso fuggire come te, che devo fare?

Lo urlano tutti gli occhi delle persone che soffrono e la risposta è sempre uguale: silenzio. Però questa storia, il confronto con altre storie e miti e racconti, mi dice anche: forse c’è un sottile legame tra la sofferenza, la solitudine e il senso ultimo, se -come ha detto il Papa ieri-la croce è la risposta al male del mondo, allora forse è nella croce il senso. E sulla croce può stare un solo uomo, sotto una donna e  altre poche persone a condividere il dolore. Tutti gli altri devono rimanere per loro scelta, ma scelta che si ripete sempre uguale, a guardare il cielo grigio, a temere, avere il rimorso e sentirsi infinitamente piccoli. Allora la storia mi ha fatto sentire, la comprensione è fuori dai limiti della mia mente, che la grandezza si può trovare attraverso la piccolezza, ma mai la piccolezza può raggiungere la grandezza. Nel momento in cui l’uomo comincia a sentirsi grande è infinitamente piccolo, mentre solo rimanendo nell’umiltà può trovare la grandezza.

Il mondo sembra al contrario fatto, ma del resto Edipo quando credeva di vedere non vedeva, non comprendeva, quando si rese cieco invece cominciò a vedere.

Vi auguro di diventare ciechi? Non proprio, ma piccoli si. Capaci di dividere le croci e di renderle sopportabili a chi le ha nel proprio destino, di non chiudere la porta e rimanere nel vostro falso paradiso, ma vivere l’esperienza dell’incontro e della fiducia nell’altro. Di non avere paura, di non farla vincere.

Inoltre un carissimo saluto ai miei followed, grazie di seguirmi sempre!

Basso-croce-La-Verna-2

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