Adesso alzati.
Anche se non puoi, fallo.
Deve giungere un tempo per vedersi,
per fermarsi a vedere,
per alzarsi,
dire “Io sono.”
È giunto. Non è presto, non è tardi.
Forse c’è tempo per un nuovo inizio.
Forse non serve.
Io non lo so come sarebbe andata, ma la mia immagine
saresti sempre tu.
Le clavicole piane, alle ciocche deposte;
la curvilinea perpendicolare colonna;
certo, i fianchi pesano e i polpacci;
le braccia immense all’apertura
di moti esatti, normali;
i moti esatti.
Da qui, è una visione diversa.
È tutto corpo: dal cadavere, al sesso, alla terra.
Tutto si maneggia, si plasma, si rompe o compone.
Tutto è questo confine lontano dal respiro,
in-contemplato, fulmineo.
Il terreno è un traforato sfavillio di perdite perenni,
di trame scoordinate.
Certo, i fianchi pesano e i polpacci.
Da qui puoi scegliere il tempo, lo spazio,
l’assenza, la presenza,
il giaciglio concesso al cuore,
la dedizione.
Da qui puoi decidere chi aspettare,
puoi trascurare una sconfitta,
puoi abbandonare all’angolo i vestiti che ti hanno messo,
oppure li puoi stracciare con rigore,
puoi gridare.
Soprattutto puoi gettare la pressione di dover correggere
sempre la tua proiezione,
dimostrare prima di vivere.
Io non lo so come sarebbe andata, ma la mia immagine
saresti sempre tu.
Il tuo sorriso e gli occhi grandi.
E tu mi ricordi che in fondo non te lo saresti ricordato
tutto questo, e non sarebbe stato possibile.
E tu mi ricordi che sei la mia più vera immagine,
invisibile.
Non è un tradimento a questo guscio di pellaccia floscia,
amata,
non è come dice quel tale amico “il fiocco e lo strappo”:
tu sei semplicemente me.
E da qui, che pesa sui fianchi e i polpacci,
da qui io mi ricordo di gettare le vesti
che mi hanno dato, che mi sono data,
di trascurare una sconfitta,
di scegliere chi aspettare,
di vivere prima di dimostrare.
La mia solidità, la mia felicità non è fuori da noi.
E torno a contemplare il cuore della vita
con occhi di meraviglia.
Alzati.
Foto di Susanita